Heysel, un po’ di vergogna è anche la mia
Me la ricordo bene quella maledetta sera dell’Heysel. Ero a casa di amici per assistere a quella che per la Juventus era diventata una maledizione: una Coppa mai vinta, due finali perse con lo stesso identico risultato ed entrambi con un gol prima che l’orologio avesse scoccato dieci minuti di gioco.
Non sapevamo che la maledizione doveva ancora venire. Ben più tragica di una finale persa.
Non voglio pulirmi la coscienza, ma soltanto spiegare a me come mai dopo il fischio finale accennammo, io e i miei amici, festeggiamenti per le vie della nostra città. Lo faccio spesso, perché ogni tanto ci pensor a quella maledetta notte che da magica diventò funesta. Penso a quando, tornando a casa, sventolammo sciarpe e bandiere.
Quella che sto per scrivere non è una scusante o un’attenuante, ma semplicemente la situazione a metà degli anni ottanta, periodo in cui non solo eravamo ragazzi spensierati, ma anche ragazzi senza internet, cellulari e tv via satellite. In pratica: non sapevamo quel che stava veramente succedendo nel resto del mondo se non eravamo con la radio o la tv accesa. E la tv non ci aiutò quella sera, unito al fatto che eravamo poco più che adolescenti ignoranti, superficiali e con poche consapevolezze.
Rai Due iniziò la diretta con il video oscurato volontariamente. Bruno Pizzul, che aveva il compito di commentare la gara, tentava di attribuire l’imprevisto a cause tecniche. Poi iniziò a snocciolare fatti e dati quasi a caso. Prima qualche ferito, poi un morto, poi quaranta, poi di nuovo solo feriti, poi ventiquattro morti.
Quando arrivarono le prime immagini di gente che fuggiva verso il terreno di gioco, rimanemmo ipnotizzati, ma nessuno di noi poteva lontanamente immaginare l’entità della tragedia. Ci furono moti di rabbia verso gli hooligans inglesi, le classiche frasi da tifoso rivolte alla tv e agli avversari. Punto.
Le immagini, quelle vere, quelle con i morti portati via sopra transenne-barelle, le vedemmo dopo. A fine gara. Parecchio dopo il fine gara.
Mario Sconcerti, allora inviato per un giornale, racconta che telefonò in redazione per trasferire le poche cose che sapeva e vedeva dalla tribuna, ma la redazione rispose: “Stai esagerando, la televisione non sta dicendo niente”. Neanche i tifosi juventini che erano nella curva opposta si resero conto della reale gravità. Assistettero alla partita quasi come se fossero incredibilmente lontani anni luce da dove stavano.
Già, la partita. Un dilemma che da quaranta anni ci portiamo dietro: era meglio non giocare lasciando sessantamila persone rendersi conto di quanto successo? Oppure lasciarla disputare dando l’impressione di “normalità” per organizzare al meglio il deflusso dallo stadio?
Non lo sa nessuno, non lo so certamente io. I trentanove morti ormai c’erano stati e quelli non li poteva evitare più nessuno. Come ha detto il padre di una vittima: “Lì per lì pensai ‘questi son pazzi’, ma ora dopo tanti anni penso sia stata la soluzione migliore, che portò ad evitare altri morti”.
Non fu reale quella gara. Anche se poteva avere, e lo ebbe, un effetto di un quasi ritorno alla normalità per noi che eravamo a chilometri di distanza, isolati da tutto tranne che dalla voce di un Pizzul anche lui non propriamente consapevole e lucido. Nell’era del ‘no internet’, anche se parliamo del 1985 e non del 1925, un commentatore televisivo poteva rimanere isolato nella propria cabina stampa senza sapere quello che realmente stava succedendo in curva.
Però quella partita non poteva essere reale per i giocatori in campo, questo no. Hanno detto e dicono ancora oggi di essere stati costretti a farlo (e questo è vero) e di non essersi resi conto della gravità della cosa, ma quel giro di campo col sorriso in bocca e la Coppa in mano rimane un’immagine vergognosa. Paolo Rossi ha sempre detto di non aver saputo niente fino alla fine della gara. Michel Platini di aver saputo invece nell’intervallo che c’era stato un morto, anche se qualcuno urlava “no, sono sette”. Come se uno, sette o trentanove cambiasse qualcosa.
Comunque sia, quel giro di campo rimane imperdonabile, così come aver alzato quella Coppa il giorno dopo, appena scesi dall’aereo a Torino. Questo è un punto fermo su cui tutti devono concordare. Sono un tifoso della Juventus praticamente dalla nascita, ma prego Dio di non farmi mai accecare in modo tale da ragionare in un’ottica diversa da questa: la Coppa dei Campioni 1985 non esiste, alla pari del rigore concesso a Boniek, con cui si fece vincere la non gara ai bianconeri per ‘ammorbidire’ la situazione.
Qualcuno di quei giocatori chiese scusa, qualcun altro no. Oggi la chiedo io, perchè a distanza di 40 anni quando sento parlare di Coppa dei Campioni o Champions League ancora ci penso. Penso a quell’automobile che mi riportava a casa. Non mi ricordo neanche chi la guidava, ma ricordo distintamente quella sciarpa che sventolava al vento. Scoprii solo dopo, dai telegiornali della notte e non da Facebook con il suo real time, che era sporca di sangue. Ma la mia vergogna rimane.
© 2025 Marco Gubbini