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MARCO GUBBINI

CORSI e ricorsi

2025-02-16 15:25

Marco Gubbini

Articoli, Musica, lucio corsi, sanremo 2025,

CORSI e ricorsi

Penso di aver scritto quasi mai di Sanremo. Di sicuro non per quanto riguarda classifiche. La musica non può essere una gara. È impossibile: è soggett

Penso di aver scritto quasi mai di Sanremo. Di sicuro non per quanto riguarda classifiche. La musica non può essere una gara. È impossibile: è soggettiva e dipendente dalle emozioni. Voglio scrivere però di un personaggio che conosco da qualche tempo e non da martedì scorso come la stragrande maggioranza dei giornalisti e del pubblico.

Sapevo che Lucio Corsi avrebbe lasciato un segno al festival e lo avevo anche dichiarato apertamente. Non credevo però in un solco così profondo lasciato da uno totalmente privo di stereotipi.

Lucio è stato il prodigio – non tanto raro a dir la verità – della musica che ancora una volta annienta gli spazi temporali e si conferma immortale. Non pensavo di vederlo sul palco, e soprattutto fuori, esattamente come lo conoscevo: un cantastorie di altri tempi. Non pensavo che Sanremo fosse roba per lui e quando ho visto il nome ho anche pensato: “Ci siamo, se n’è andato uno degli ultimi Mohicani”.

Invece no.

 

Vi svelo una cosa: Lucio non è una mosca rara, non è l’unico trentenne cresciuto con il mito di Ivan Graziani, Peter Gabriel, Iggy Pop o Lucio Dalla. E non deve essere amato per quello. Tutti i gruppi rock di ventenni che conosco, e ne conosco tanti, si sono nutriti di pane e Led Zeppelin, da cui li separano 50 anni.

Non è questa la magia, perché stolti sono coloro i quali pensano che la musica abbia uno schedario del tempo. Non c’è il cassetto degli anni ’60 o quello degli ‘80. Non è così. La musica non ha classificazioni d’età, di tempo. Non scade ed è eternamente nell'aria. La musica valida e fresca è sempre quella che emoziona ognuno di noi. Può essere 𝐶𝑎𝑛’𝑡 ℎ𝑒𝑙𝑝 𝑓𝑎𝑙𝑙𝑖𝑛𝑔 𝑖𝑛 𝑙𝑜𝑣𝑒 di Elvis, ma anche 𝐵𝑒𝑛𝑑 𝑡ℎ𝑒 𝐶𝑙𝑜𝑐𝑘 dei Dream Theater, che è uscita 63 anni dopo.

Il motivo per cui dobbiamo amare Corsi come artista e genio è che mentre gli altri si ispirano al passato come stile, lui il passato ce lo ha dentro e ne incarna il romanticismo più puro. Ha letteralmente dentro Graziani, Gabriel, Dalla, Gaetano e addirittura anche un Flavio Giurato di cui, candidamente, ammetto di essermi dimenticato. Andatelo a risentire e vi accorgerete che anche lui vive dentro Lucio Corsi.

È una delle prime volte in cui un artista porta a Sanremo una canzone non confezionata per Sanremo e, bisogna concedere alla direzione artistica, è una delle poche volte che questo viene concesso. Lo ha detto Corsi stesso: “𝐿𝑒 𝑐𝑎𝑛𝑧𝑜𝑛𝑖 𝑠𝑖 𝑟𝑖𝑏𝑒𝑙𝑙𝑎𝑛𝑜 𝑠𝑒 𝑙𝑒 𝑐𝑎𝑚𝑏𝑖 𝑎 𝑠𝑒𝑐𝑜𝑛𝑑𝑎 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑡𝑖 𝑓𝑎 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑐𝑜𝑚𝑜𝑑𝑜”. Non lo ha fatto e la canzone, libera nell'aria, è arrivata fino a noi in tutta la sua bellezza e purezza, passando indenne nel tritacarne sanremese.

 

Lucio Corsi per me è un alieno, un personaggio che viene da un anno 3000 che sembra un 1978. Un alieno che ha rilasciato interviste fotocopia con concetti inossidabili. Un marziano che ha costellato il festival di particolari magici, come chiudere i cerchi della vita. Meraviglioso il motivo per cui ha voluto sul palco Topo Gigio, che esordì in tv con la voce di Domenico Modugno e che in questo modo ha reincontrato la “sua” canzone dopo 67 anni.

Oggi cantiamo tutti Giorgia, Brunori e Cristicchi (quest’ultimo mi resta difficile, perché ha portato un brano purtroppo povero di musicalità), ma la verità è che “𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑣𝑜𝑟𝑟𝑒𝑚𝑚𝑜 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝐿𝑢𝑐𝑖𝑜”, dentro una favola e mai cresciuti. Avete notato la suola della scarpa che ha sempre tenuto in bella vista sotto la coscia, mentre suonava il pianoforte? Ieri sera c’era scritto ANDY con la N al contrario, come aveva fatto il protagonista di Toy Story sotto la scarpa del cowboy Woody quando ancora non conosceva bene l’alfabeto. È stato questo il momento che ha reso Lucio Corsi un marziano-bambino ai nostri occhi, la parte più poetica di tutto il festival. Andy, crescendo, nel film scriverà il nome corretto sotto il piede di Buzz Lightyear, ma a noi piace più rimanere bambini, perché restare bambini è una cosa da grandi e quella scarpa ce lo ha ricordato in una maniera che più poetica non si può.

 

Aggiungo un particolare tecnico, ma anch’esso romantico: nella serata finale Corsi ha portato sul palco una chitarra Wandré, strumento ideato da un uomo classe 1926 che si chiamava Antonio Vandré Pioli, la cui attività di liutaio fu solo una breve parentesi di una vita consacrata all’arte. Le sue chitarre hanno acquisito negli anni un’aurea di leggenda. Guccini disse una volta: “𝑀𝑖 𝑟𝑎𝑐𝑐𝑜𝑛𝑡𝑎𝑛𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑓𝑎𝑐𝑒𝑣𝑎 𝑐ℎ𝑖𝑡𝑎𝑟𝑟𝑒, 𝑚𝑎 𝑛𝑜𝑛 𝑐ℎ𝑖𝑡𝑎𝑟𝑟𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑒 ℎ𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑑𝑎 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑙𝑒 𝑐ℎ𝑖𝑡𝑎𝑟𝑟𝑒, 𝑝𝑖𝑢𝑡𝑡𝑜𝑠𝑡𝑜 𝑜𝑔𝑔𝑒𝑡𝑡𝑖 𝑑𝑜𝑡𝑎𝑡𝑖 𝑑𝑖 𝑎𝑛𝑖𝑚𝑎 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖𝑎, 𝑟𝑖𝑏𝑒𝑙𝑙𝑖, 𝑎𝑑𝑑𝑖𝑟𝑖𝑡𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑐𝑜𝑙𝑜𝑠𝑒”. Poteva essere allineato agli altri Lucio in finale? No, non lo ha fatto. Neanche con la moda: nessuno stilista per lui, solo i suoi abiti con cui suona nei pub, rinchiusi, quando non si esibisce, in un vecchio e rigido baule.

 

Tutti hanno scritto di Lucio Corsi come di una ventata di novità in un festival piatto. Alla fine è stato così, perché la kermesse si è chiusa con la vittoria di una canzone con un bel testo sì, ma di un piattume armonico e melodico pari alla pianura padana. Generalizzando: il piattume estremo e devastante dei “ciao Bro” declamati con la cantilena dell’autotune.

Aldo Grasso sul Corriere ha parlato di “funerale della speranza”. Vero, perché stavolta ci avevano fatto sperare in una vittoria diversa, che andasse al di fuori del management che ha vinto le ultime cinque edizioni del festival.

 

Allora fanculo la classifica e teniamoci le (poche) novità di questi cinque giorni di musica. Che poi, se ci pensate, è come un gatto che si morde la coda, un paradosso da film di fantascienza, perché parlare di “novità” riferito a uno che fa dello stile cantautorale degli anni ’70 la sua forma di espressione apre un varco spazio-temporale incredibile.

O forse è uno dei classici e affascinanti 𝑪𝒐𝒓𝒔𝒊 e ricorsi storici della musica, della moda e della vita.

 

© Marco Gubbini 2025