Quello che segue è uno dei due racconti - l'altro è di Edoardo Ridolfi - che ha vinto il primo premio del concorso "Turismo Slow" del Comitato Regionale per la Comunicazione della Regione Umbria. Lo scritto è stato poi modificato per adattarlo ad un podcast di tre minuti, che potete ascoltare cliccando sul pulsante alla fine del testo.
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La Nissan percorreva i saliscendi della strada di campagna. Roma era ormai da due ore dietro le sue spalle e da qui tutto sembrava lontanissimo e rarefatto. Le case, il traffico, il vociare dei turisti.
Da qualche secondo, un cielo che si era fatto improvvisamente plumbeo stava riversando tonnellate di acqua sulla strada non asfaltata, che colorava di bianco il verde intenso di questo pezzo di mondo. Phil aveva scelto di proposito di lasciare le strade principali. Voleva assaporare dal nocciolo quei luoghi a lui sconosciuti.
Glie lo avevano detto che questa parte d’Italia è bella in tutte le stagioni. Anche quando un acquazzone cancella un bel paesaggio, regalando scorci nebbiosi e grigi che farebbero da set naturale ad un film di Shyamalan.
“È tempo che fugge, niente paura che prima o poi ci riprende”. Il SUV aveva rallentato la marcia con le prime note di questo superbo capolavoro di Ivano Fossati. Note celestiali che, noncuranti della pioggia, avevano volato per chilometri e si erano tuffate nella radio dell’auto. È incredibile come una bella canzone, se la metti insieme ad un paesaggio mozzafiato, possa farti immergere in quello che sembra il tuo film da protagonista. Phil, in quel momento, era dentro il suo film e stava andando incontro al suo destino.
Phil Mancini quindici ore prima era seduto all’aeroporto JFK di New York, sua città da 23 e 11 mesi dei suoi 24 anni. Praticamente tutta la vita. Ma non tutta. I primi trenta giorni Phil li aveva vissuti nel luogo dove aveva visto la luce. Quel luogo dove era diretto adesso.
Phil non aveva mai avuto problemi a sentirsi italiano, anche se la sua vita americana era iniziata quando ancora neanche parlava, dato che i suoi genitori si erano trasferiti negli States pochi giorni dopo la sua nascita. L’unico sforzo di suo padre verso l’americanità del figlio era stato il nome.
La vicenda dei Mancini è semplice (si fa per dire): un bar e un gelato artigianale. Una signora americana che lo assaggia e suggerisce che "a New York questo gelato andrebbe a ruba". Trenta giorni per trovare il locale e organizzare il trasferimento. Un inizio duro, col piccolo spazio nell’11th street di Long Island e dopo 20 anni Mario Mancini inaugurava il sesto punto vendita di Manhattan. L’insegna “Mancini’s Italian Ice Cream” brillava in tutta l’isola, compresa Times Square.
Nonostante il grande amore che papà Mario nutriva verso la storia e le tradizioni della propria terra d’origine, non riuscì più a tornare in patria. Neanche per una vacanza. Mai. Un male velocissimo gli aveva portato via, oltre la vita, anche la possibilità di acquistare un biglietto aereo per l’Italia per rivedere i posti cari dove era nato e vissuto. Phil aveva deciso di fare quel viaggio anche per il padre. Sarebbe stato un modo per riportare in Italia anche lui.
La pioggia diventò così intensa da costringerlo ad accostare a destra. Stette lì, fermo e con le mani appoggiate al volante, intento ad osservare la pioggia che oramai stava vincendo la battaglia contro i tergicristalli. Sul navigatore c’era una bandierina e un numero, il 3: i chilometri che mancavano a Gualdo Tadino, il nome con cui Phil aveva convissuto per ventisei anni. Il nome che faceva capolino ogni volta che usava un documento d’identità. Il nome del luogo dove era nato.
Un clacson alla sua destra. “Serve aiuto?". La voce giunse lontana, dalla fessura di finestrino aperto del fuoristrada che gli si era affiancato. Aprì anche lui un piccolissimo varco e fu investito da vento e pioggia. “Per ora no, ma speriamo che smetta, perché così è difficile andare avanti” - urlò. “Dove è diretto?”. “A Gualdo Tadino”. “È quasi arrivato. Viene da Roma?”. Lo sconosciuto doveva aver letto la targa dell’auto a noleggio. “A dir la verità, a Roma non sono mai stato in vita mia, se escludiamo la mezzora passata stamattina in aeroporto. Vengo da New York”. “Da New York? Oh Signore! Comunque mi hanno chiamato perchè c’è stata una piccola frana e per il momento Gualdo da qui è irraggiungibile. Ma come mai non ha preso la statale?”.
Phil non rispose, ma fece una smorfia talmente evidente che il tizio con la jeep la vide attraverso il fiume d’acqua che scorreva giù dal finestrino. “Guardi, facciamo una cosa, imbocchi il vialetto. Dopo trenta metri c’è casa mia. Telefono a mia moglie e le faccio aprire subito. Il tempo di andare a controllare e le farò sapere la situazione”. Phil era stupito da tanta cortesia e soprattutto dal fatto che ci sia gente che si fida di uno che neanche vede in volto.
L’abitazione del ‘buon samaritano’ era una villetta ad un piano. L’uscio si aprì evidenziando una figura in controluce. In teoria era ancora giorno, ma in pratica il temporale aveva anticipato la notte. Appena aprì la portiera si trovò davanti la figura di una donna sulla sessantina che reggeva un ombrello. ‘So a malapena dove mi trovo, ma di sicuro è il posto giusto al momento giusto’ pensò Phil sorridendo alla signora. Entrarono dentro nel momento esatto in cui un fulmine spezzò il buio e chiusero la porta in quello in cui un tuono si sovrappose al rumore della pioggia.
“Le giuro, erano anni che non pioveva così. Molto lieta, mi chiamo Rosa”. “Io mi chiamo Phil e veramente non so come ringraziarla per l’ospitalità”. “Phil? Un diminutivo o il suo vero nome?”. “Il mio vero nome. Vivo in America”. “Si accomodi Phil, le preparo qualcosa di caldo da bere. Un tè va bene? Mio marito è volontario della Protezione Civile e lo hanno chiamato per controllare la strada. Si accomodi sul divano”.
Si sedette. Rifletté che quello era il suo primo impatto con l’Italia, a parte l’aeroporto e l'autogrill. Le case italiane le aveva viste solo in qualche film, ma i racconti dei suoi genitori erano stati dettati così bene dal cuore, che ora gli sembrava di essere a casa sua.
“Dov’è diretto, Phil? Presumo a Gualdo Tadino, dato che questa strada di campagna porta solo lì”. “Sì, io sono nato lì”.
E raccontò in pochi minuti la storia della sua vita.
Il marito tornò, mentre la pioggia calava d’intensità. “La strada è aperta, può proseguire”. Phil approfittò, dopo aver ringraziato, per chiedere informazioni su dove alloggiare e le diedero l’indirizzo di un piccolo albergo al centro di Gualdo Tadino.
Non era un vero e proprio hotel, ma una struttura con camere sparse all’interno del borgo. Vere e proprie perle di bellezza dove non solo l’arredamento, ma anche l’aria profumava di storia.
La mattina dopo un sole da mozzare il fiato illuminava la cittadina umbra. Phil si mise un piccolo zaino in spalla, andando incontro alla sua storia.
La lentezza della vita del borgo era inebriante. A partire dalla colazione, che fu addirittura affascinante e gli fece pensare che a New York anche quella poteva essere uno stress. Andò verso la piazza principale e poi si arrampicò per una stradina che iniziava a fianco di una fontana da cui sgorgava acqua di una bontà assurda. Arrivò in cima e la Rocca Flea fu la scoperta più bella di quella giornata. Possente, lucente, antica e scrigno dei tesori della città. Magari non erano come quelli esposti al Louvre, ma nei dipinti di Matteo da Gualdo, trovò riflesso un po’ di se stesso.
Anche alla guida al museo Phil raccontò la sua storia in un minuto. “Allora la prossima tappa deve essere assolutamente il Museo dell’Emigrazione” - le disse la ragazza. Anche lì andò a piedi. Non c’era bisogno né di autobus, né di taxi per spostarsi nel centro storico. E mentre camminava era felice dell’opportunità che si era dato, quella di godere di una tranquillità che era per lui al tempo stesso novità e medicina.
Entrò nel museo e fu sbalordito nel trovarsi dentro una Ellis Island in miniatura. Il museo dell’emigrazione è una piccola struttura che racconta prima l’arrivo degli emigrati italiani all’estero e poi, come in un viaggio a ritroso, la partenza dai luoghi natii. L’ultima tappa della giornata fu al Museo Rubboli, vera essenza della gualdesità e scrigno dei segreti della ceramica a riflesso di Gualdo Tadino. La sera fece fatica persino a sedersi al ristorante. Stanco, ma anche perchè abituato a pasti veloci e frugali. Si era accorto che anche il suo stomaco ragionava più velocemente della sua mente attuale.
Nei giorni a seguire esplorò la gola della Rocchetta e le montagne che la sovrastano, gustò tramonti dall’alto del monte Serrasanta e soprattutto conobbe persone. Tante. Un attimo prima mai viste, un attimo dopo amici per la vita.
Phil restò a Gualdo Tadino una settimana. Ci mise quindi solo sette giorni per capire quello che doveva e voleva veramente fare: la sua vita era iniziata lì e, quando sarebbe diventato vecchio, lì doveva finire. Ai piedi delle stesse montagne e all'interno di quel cuore che da oggi avrebbe coinciso con il suo, con il ritmo lento che aveva scoperto riempirgli il cuore e l'anima. Lui era giovane e la vita era bella, ma la vita è anche breve. L'unica maniera per allungarla è quella di camminare, respirare lenti e godersi ogni istante. Tornò in America... ma fu proprio quello di ritorno a diventare il viaggio più bello della sua vita.